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La sentenza
La sentenza n. 6396 del 14 Marzo scorso della Corte di Cassazione, ha stabilito che il contribuente non deve dare dimostrazione dell’effettiva destinazione delle proprie disponibilità per il sostenimento degli investimenti. Il contribuente secondo la Suprema Corte può infatti fare annullare l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate provando che l’acquisto dei beni di lusso che gli vengono contestati è stato fatto con disponibilità finanziarie esenti o con ritenuta alla fonte, ad esempio una donazione o grazie al possesso di titoli, senza che sia necessario dimostrare che l’acquisto sia stata effettuato con quei soldi. “Il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”. I giudici di legittimità hanno definitivamente affossato un principio del tutto illogico che gli uffici dell’amministrazione finanziaria utilizzavano (e ancora utilizzano) in relazione alle procedure di adesione o nel contenzioso afferente l’applicazione del vecchio articolo 38 del dpr n. 600 del 1973; e cioè quello della necessità, inesistente da un punto di vista normativo, di dimostrare che la disponibilità finanziaria del contribuente fosse utilizzata proprio per l’acquisizione ovvero il mantenimento di beni che , in relazione alle spese, erano quantificati solo su base statistica. Molto chiaramente nella pronuncia, viene affermato come la necessità di riscontrare il cosiddetto nesso eziologico costituirebbe un aspetto presuntivo ulteriore rispetto alla natura, già presuntiva, dello strumento in sé. In tal senso, peraltro, la Corte di Cassazione appare aver delimitato in maniera del tutto chiara la natura del vecchio redditometro che costituisce una presunzione semplice soprattutto con riferimento alla parte in cui si quantifica un reddito solo sulla base di indicatori e moltiplicatori statistici.
Retroattività
Le prime pronunce dei giudici si stanno orientando verso una sorta di apllicabilità retroattiva delle nuove disposizioni. Non tanto da un punto di vista strettamente tecnico, posto il succcedersi e l'entrata in vigore delle disposizione normative, quanto da un punto di vista sostanziale e di rispetto della capacità contributiva, che deve, in qualche modo, avvicinarsi alla realtà. Nella sostanza, non è immaginabile la situazione di un contribuente che, sino al 2008, sulla base di puri indicatori statistici era da considerare un evasoree, a partire dal 2009, con una situazione simile, si trova perfettamente in linea con i principi del nuovo redditometro.
Cassazione ed Entrate divise sulle prove
Il vecchio accertamento sintetico disponeva che gli incrementi patrimoniali dovevano essere valorizzati per un quinto all’anno, salvo diversa prova contraria del contribuente (su cui interviene, in senso più ampio rispetto al passato, proprio la sentenza n. 6396/2014 della Cassazione). Con il nuovo accertamento sintetico, invece, la norma stabilisce che la spesa, compresa quella per investimenti, si presume sostenuta con il reddito dell’anno. Tuttavia, con il decreto del redditometro (Dm 24 Dicembre 2012) è stato stabilito che gli incrementi patrimoniali devono essere assunti al netto dei disinvestimenti dell’anno e di quelli netti dei quattro anni precedenti.
Con la circolare n. 24/E/2013, l’agenzia delle Entrate, sempre in merito agli investimenti, ha ulteriormente specificato (paragrafo 3.6.7) che il contribuente potrà fornire la prova della provvista, necessaria all’effettuazione degli stessi investimenti, «che potrebbe anche essersi realizzata nel corso di un periodo diverso rispetto ai quattro anni indicati nel decreto». Inoltre, l’Agenzia specifica che il contribuente potrà fornire la prova dell’«utilizzo della provvista per l’effettuazione dello specifico investimento». Queste affermazioni impongono una serie di considerazioni, proprio alla luce della sentenza della Corte di Cassazione n. 6396/2014. Innanzitutto, deve essere specificato che il contribuente non deve fornire alcuna prova ma, semmai, delle giustificazioni. La prova si dà sul piano processuale e non nell’ambito del contraddittorio. E poi, qualora si dovesse andare davanti al giudice, appare evidente che per il nuovo redditometro l’onere di prova dovrà essere fornito innanzitutto dall’Agenzia, la quale dovrà dimostrare di avere personalizzato molti dei dati a base della pretesa (si pensi agli stessi investimenti, alla quota di risparmio, alle spese per elementi certi per le quali valgono i valori Istat).
Ad ogni modo va rilevato che con la circolare n. 24/E/2013 l’Agenzia amplia i periodi per il monitoraggio delle risorse necessarie per l’effettuazione degli investimenti, visto che viene fatto riferimento a un arco temporale anche superiore ai quattro anni (precedenti all’investimento) previsti dal decreto. L’Agenzia poi parla giustamente di “formazione della provvista” e non di “redditi dichiarati” perché si rende perfettamente conto che, nella gran parte dei casi, il reddito dichiarato dal contribuente non rappresenta la sua effettiva capacità di spesa.
Quello che stona del documento dell’Agenzia è il passaggio in cui si afferma che il contribuente deve dare prova dell’utilizzo della provvista per l’effettuazione dell’investimento. Questo non risulta corretto perché il decreto prevede una sorta di nettizzazione automatica degli investimenti, i quali vanno considerati al netto dei disinvestimenti dell’anno e dei quattro precedenti. È evidente, quindi, che non può essere data alcuna dimostrazione tra un dato che non coincide con quello effettivo della spesa e l’utilizzo della provvista. Ulteriormente, occorre considerare la pronuncia n. 6396 della Corte di Cassazione – che deve reputarsi valida anche per il nuovo redditometro – la quale stabilisce che non serve alcuna prova dell’effettiva destinazione dei redditi per l’effettuazione dell’investimento.
Nella sentenza, dunque, l'impressione è che il destino del contenzioso ancora esistente sulla scorta della applicazione del vecchio articolo 38 del dpr. n.600 del 1973 sia segnato nonostante, in alcuni casi, l'amministrazione finanziaria insista in maniera a volte incomprensibile nel coltivare il contenzioso stesso. Ciò non significa, ovviamente, che tutte le casistiche siano infondate ma in buona parte, è evidente come il vecchio strumento di accertamento mostri oggi tutta la sua inadeguatezza. Come, peraltro, è la stessa amministrazione finanziaria a ricordare nella circolare in materia di "nuovo" redditometro.
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Redazione di Rete Commercialisti