Vuoi passare alla versione mobile di Rete Commercialisti? Clicca qui!
ENTRA

Redditometro e Sintetico, quando l'accertamento è nullo

Attività professionali 

Alla fine dell’anno appena passato abbiamo ricevuto una serie di accertamenti sia effettuati con il redditometro che col sintetico basato sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva (spesometro).

Ma l’avviso di accertamento che accerta, ai fini IRPEF, il reddito del contribuente ai sensi dell’art. 38, comma 4, e seguenti D.P.R. 600/73 utilizzando sia il redditometro basato sulle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta ex art. 38 comma 4, sia il sintetico basato sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva ex 38 comma 5 è nullo nelle motivazioni.

Tale modalità di determinazione del reddito è in palese violazione della legge: l’art. 38 prevede, infatti, diverse modalità di determinazione sintetica del reddito ma esse potranno essere applicate dall’Amministrazione solo alternativamente.Dello stesso parere è la Direzione Centrale Normativa dell’Agenzia delle Entrate che con la circolare 28/E quesito 6.1 prevede inequivocabilmente l’alternatività tra i due strumenti di accertamento affermando a chiare lettere che il contribuente potrà subire alternativamente un accertamento sintetico basato “sulla somma delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta” oppure un redditometro vero e proprio basato “sul contenuto induttivo di elementi significativi di capacità contributiva”.

Conseguentemente il comportamento irregolare dell’Agenzia delle entrate da adito a contestazioni che potrebbero essere accolte dai giudici di prime cure.

In tema di accertamento sintetico, qualora l'Amministrazione Finanziaria abbia determinato il reddito del contribuente in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali (con imputazione per “quinti” o anche soltanto nell'anno di sostenimento, ai sensi del nuovo art. 38, comma 4, del D.P.R. n. 600 del 1973 come sostituito dall'art. 22 del d.l. n. 78 del 2010: la sostanza della questione infatti non cambia) la prova documentale contraria ammessa per il contribuente non attiene solo alla disponibilità di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta ( ex art. 38, comma 6 del predetto testo normativo), ma anche al collegamento stretto tra tale disponibilità e la spesa stessa.
 
L'assolvimento di tale onere probatorio (anche attraverso presunzioni, purché gravi, precise e concordanti) può essere ribaltato dall'Ufficio solo attraverso la dimostrazione che quei redditi cui fa riferimento il contribuente siano stati utilizzati in altro modo.
 
E' questo il principio che si desume dalla recente sentenza della Cassazione, n. 3111 dello scorso 12 febbraio.
 

La vicenda processuale

 

La CTP di Matera accoglieva il ricorso di un contribuente avverso un avviso di accertamento con cui l'Agenzia delle Entrate aveva rideterminato, sinteticamente, il reddito complessivo.
 
In particolare, ai sensi dell'art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973, l'atto impositivo si basava su alcuni indici sintomatici di capacità contributiva costituiti dal possesso di un'abitazione principale, di 5 abitazioni secondarie e di un'autovettura, nonché dall'incremento patrimoniale rappresentato da un finanziamento erogato dal contribuente, in qualità di socio, nei confronti di una società.
 
La CTR , cui si era nel frattempo rivolta l'Agenzia delle Entrate, confermava la decisione di primo grado, rilevando che, a fronte di un accertamento sintetico basato su presunzioni semplici, il contribuente aveva provato la disponibilità di redditi esenti, derivanti da operazioni di smobilizzo patrimoniale (disinvestimenti); in particolare dai documenti prodotti risultava inconfutabilmente che, nel periodo immediatamente antecedente alla spesa, il contribuente aveva effettuato disinvestimenti, alienando un fabbricato e liquidando titoli di Stato per una somma corrispondente alla spesa effettuata. Spettava quindi all'Ufficio dimostrare che quella disponibilità era stata investita in modo diverso e non per effettuare il finanziamento oggetto di accertamento.
 
Nonostante la doppia “conforme” l'Agenzia decideva di proporre ricorso per Cassazione. Con l'unico motivo di ricorso denunciava, ai sensi del n. 3) dell'art. 360 c.p.c., violazione di legge in relazione all'art. 38, comma 6, del D.P.R. n. 600 del 1973, in quanto il contribuente avrebbe dovuto dimostrare non solo la disponibilità di redditi esenti ma anche l'identità tra questi ultimi e la spesa per incrementi patrimoniali, ovvero che proprio quei redditi erano stati utilizzati per effettuare la spesa recuperata a tassazione dall'Ufficio.

 

La pronuncia della Cassazione

 

La Cassazione rigetta il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, ritenendolo infondato.
 
A tal proposito richiama un orientamento ormai consolidato (soprattutto) della giurisprudenza di legittimità ( ex multis Cass. n. 6813 del 2009) secondo cui “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l'ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la prova documentale contraria ammessa per il contribuente dall'art. 38, sesto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 non riguarda la sola disponibilità di redditi ovvero di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta, ma anche l'essere stata la spesa per incrementi patrimoniali sostenuta proprio con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta, e non già con qualsiasi altro reddito (dichiarato) ”.
 
Nel caso specifico il giudice d'appello aveva fatto corretta applicazione di tale principio ritenendo provato, con motivazione ineccepibile, che il ricavato delle operazioni di disinvestimento (cessione del fabbricato e disinvestimento dei titoli di Stato) sia stato utilizzato specificamente per finanziare la società partecipata: “ tanto in base sia alla contiguità temporale delle dette operazioni, avvenute "nel periodo immediatamente precedente" rispetto al detto finanziamento, sia alla sostanziale corrispondenza dell'importo delle operazioni medesime ”; inoltre mancava la prova contraria da parte dell'Ufficio in ordine al diverso impiego delle somme contestate.
 
Ulteriori osservazioni
 
La sentenza in commento si allinea ad un orientamento stabile della giurisprudenza di legittimità secondo cui, nel caso di incrementi patrimoniali, la prova necessaria a superare la presunzione di maggior reddito non può limitarsi alla sola dimostrazione di una disponibilità finanziaria pregressa (o del possesso di redditi esenti o soggetti alla ritenuta a titolo di imposta o altre disponibilità), dovendo il contribuente provare altresì il collegamento tra tale disponibilità (o possesso) e la spesa per incrementi patrimoniali.
 
Secondo la Corte di cassazione, “ nel sesto comma dello stesso art. 38 […] il legislatore individua l'oggetto della prova liberatoria a carico del contribuente unicamente nella (dimostrazione della) identità della “spesa per incrementi patrimoniali” con “redditi esenti o ... soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta”: per la norma, quindi, non è sufficiente la prova della sola disponibilità di “redditi” - e men che mai di “redditi esenti” ovvero di “redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta” - ma è necessario anche la prova che la “spesa per incrementi patrimoniali” sia stata sostenuta, non già con qualsiasi altro reddito (ovviamente dichiarato), ma proprio con “redditi esenti o ... soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta ” (Cass. sent. n. 6813 del 2009).
 
Tale orientamento è stato recentemente ripreso dalla sentenza n. 4138 del 20 febbraio 2013 con la quale la Suprema Corte , accogliendo il ricorso dell'Agenzia, ha ritenuto che nel caso in esame “ i contribuenti hanno documentato, nel merito, - e la sentenza impugnata fa riferimento a detti documenti – solo il preteso possesso di redditi (…) che essi assumono sufficienti, ma non hanno mai neppure allegato che proprio quei redditi erano stati impiegati, previo disinvestimento, per affrontare la “spesa per incrementi patrimoniali”, considerata dall'Ufficio .
 
La giurisprudenza di merito non sempre si è allineata a tale principio: in particolare, discostandosi dall'orientamento della giurisprudenza di legittimità, la Ctr del Lazio, con sentenza 18 giugno 2013, n. 277/4/2013, ha ritenuto non sussistere, in capo al contribuente, l'onere di dare conto, oltre che della disponibilità della provvista, anche delle modalità attraverso le quali sono avvenuti i pagamenti afferenti agli acquisti.
 
La stessa CTR però, con altra pronuncia (la n. 127/21/13 del 15 aprile 2013), aveva stabilito la necessità di provare il nesso tra la disponibilità economica proveniente da disinvestimenti e la spesa per incrementi patrimoniali; per tale motivo aveva disposto il rigetto del ricorso del contribuente il quale non aveva dato prova di aver mantenuto nel tempo la ricchezza acquisita a seguito di una risalente cessione che lo stesso invocava a giustificazione del successivo incremento.
 
La CTR Piemonte, con sentenza n. 142/34/13, in riferimento ad un contribuente che sosteneva di aver fatto fronte alle spese oggetto di recupero grazie al prelevamento dalla società di cui era accomandatario, di somme costituenti utili di esercizi precedenti, ha sottolineato la mancata prova del collegamento tra tali disponibilità finanziarie e le spese sostenute, richiamando testualmente il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza n. 6813 del 2009.
 
In ultimo va menzionata la CTP di Treviso che, con sentenza n. 2/3/13 del 24 gennaio 2013, ha confermato l'operato dell'Amministrazione Finanziaria che, a seguito del contraddittorio con il contribuente, ne ha accolto alcune giustificazioni in base alla prova del collegamento tra disponibilità finanziarie e spese sostenute, mentre ne ha disattese altre (come l'esistenza di erogazioni liberali da parte dei genitori) riguardanti disponibilità per le quali non era stato provato il collegamento con la spesa sostenuta.
 
Secondo la normativa relativa al vecchio accertamento sintetico (art. 4, comma 2, del DM 10 settembre 1992) il contribuente è ammesso a dimostrare che il maggior reddito determinato sinteticamente è costituito, in tutto in parte, oltre che da redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo di imposta, anche da “smobilizzi patrimoniali”.
 
In senso conforme, l'Amministrazione finanziaria ha specificato che “La presunzione relativa può essere contrastata con vari elementi di prova contraria. Tra questi va certamente compresa la dimostrazione che le spese per il mantenimento dei beni e servizi indice di capacità contributiva (dalle quali viene desunto il maggior reddito determinato sinteticamente) sono state coperte con elementi patrimoniali accumulati in periodi d'imposta precedenti o sono state finanziate da economie terze” (cfr. circolare n. 12 del 12 marzo 2010).
 
La norma non pone alcun limite temporale alla formazione della relativa provvista finanziaria, che può essere pertanto anche risalente nel tempo; è necessario tuttavia che il contribuente provi che “il maggior reddito accertato…era giustificato dalla disponibilità di capitale accumulato in anni precedenti” proveniente dallo smobilizzo" (Cass. sent. n. 21994 del 25 settembre 2013).
 
La prova della connessione può essere diretta ma anche per presunzioni, che nel diritto civile e tributario hanno pari dignità, qualora presentino le caratteristiche della gravità, precisione e concordanza: emblematica a tal proposito la fattispecie esaminata dalla sentenza in commento in cui la connessione tra lo smobilizzo e la spesa risulta da diversi elementi, quali la contiguità temporale delle operazioni e la sostanziale corrispondenza dell'importo delle stesse.

Hai un problema relativo a questo argomento?

Registrati ora per inviare una richiesta a più commercialisti gratuitamente.

Iscriviti adesso  

Redazione

Redazione di Rete Commercialisti